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Schede Film

Ancora 1
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Il lago delle oche selvatiche

Regia: Yi'nan Diao

Durata: 113'

Genere: Drammatico

Luogo e anno: Cina | 2019

CastGe Hu, Lun-Mei Kwei, Fan Liao, Regina Wan, Dao Qi, Jue Huang

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Zhou esce dal carcere e finisce immediatamente in una violenta contesa tra gang, che si conclude con l'uccisione di un poliziotto. Braccato dalla legge e dai rivali, è costretto a fidarsi di una prostituta, Liu, forse innamorata di lui.
Opera seconda di un regista già vincitore di un Orso d'oro a Berlino e accreditato dai più come l'autore cinese su cui puntare per il futuro, Il lago delle oche selvatiche - titolo internazionale di un film che in originale è più o meno traducibile come "Appuntamento in una stazione del Sud" - conferma a più riprese come le speranze su Diao Yinan siano state ben riposte e come il suo stile sia già definito e maturo.

Il genere d'elezione è nuovamente il noir, anche se l'approccio differisce dal fortunato predecessore, Fuochi d'artificio in pieno giorno. Quella che là era suggestione investigativa, incentrata su una femme fatale enigmatica, qui diviene immersione in un sottobosco criminale crudele, regolato da leggi antiche.

Le improvvise esplosioni di rabbia e di violenza che sopraggiungono a interrompere momenti quasi contemplativi sono spesso quadri corali, in cui la regia ha sempre il controllo della più caotica delle situazioni. La presenza vistosa della macchina da presa è alla base delle scene più memorabili di Il lago delle oche selvatiche: la rissa iniziale, che darà vita a un'inesorabile reazione a catena, così come la sparatoria durante il ballo di gruppo sulle note di Rasputin di Boney M, in cui le suole luminose degli apprendisti ballerini catturano l'attenzione dello spettatore e lo guidano attraverso i campi lunghi di Diao, ad abbracciare le molteplici realtà della Cina odierna.
La miseria, l'avidità, l'occidentalizzazione che si insinua e l'ancestrale legge del jiang hu (il senso dell'onore cavalleresco che caratterizza le contese mafiose) che regna sopra ogni cosa scorrono in un'ideale carrellata orizzontale. Ed è ancora più forte l'impronta stilistica in un montaggio frenetico di animali selvaggi, talmente criptico da non permettere di capire con certezza su che piano di realtà ci si stia muovendo, se in uno zoo, teatro di una sparatoria, o in una fantasia di guardie e ladri, predatori e prede.
Al centro c'è nuovamente una figura femminile, Liu, come in Fuochi d'artificio in pieno giorno interpretata da Gwei Lun. Liu ha molti padroni e in fondo non ne ha alcuno, la sua posizione costantemente precaria le permette di dimostrarsi più forte di tutti i peggiori prevaricatori. La sua identità, stratificata e ambigua, si contrappone alla semplicità del suo ipotetico oggetto d'amore: Zhou, il fuggiasco, a cui dà vita la star televisiva Hu Ge. Un archetipo vivente, così vicino al canone classico dell'antieroe noir da divenire lo strumento con cui il cinefilo Diao rivisita il cinema in bianco e nero.

Non è un caso, quindi, se le ombre proiettate sulle pareti assumono un ruolo centrale nel film, tanto che le sagome dei personaggi sembrano quasi vivere una vita distinta rispetto alle figure in primo piano. Forse le prime rappresentano la proiezione di quel che Zhou e Liu vorrebbero essere, forse sono ciò che ancora i due amanti alla realtà e che rimuove alla radice ogni sogno di romantica fuga. D'altronde il primo luogo in cui conosciamo Zhou è una stazione ferroviaria, con i treni che rendono inintelligibili parti di dialogo. L'ambiente ideale per un protagonista che ricorda Robert Mitchum ma ancor più il Jean-Paul Belmondo di Fino all'ultimo respiro, con l'aggiunta di una dose di violenza efferata che è, al contrario, figlia della modernità e delle estremizzazioni di Nicholas Winding Refn o Kim Jee-woon. Ma anche lo spargimento di sangue in stile manga entra a far parte del mosaico orchestrato da Diao Yinan, talmente composito che spesso i singoli, geniali, frammenti di cinema finiscono per superare, per perizia e inventiva, la visione complessiva. Un contrasto o un limite presente più in Il lago delle oche selvatiche che in Fuochi d'artificio in pieno giorno e che, forse, resta l'ultimo ostacolo da superare per accogliere definitivamente Diao Yinan nel pantheon dei più grandi.

Ancora 2
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Le Mans '66 - La grande sfida

Regia: James Mangold

Durata: 152'

Genere: Azione

Luogo e anno: Usa| 2019

CastChristian Bale, Matt Damon, Caitriona Balfe, Jon Bernthal, JJ Feild, Josh Lucas, Ray McKinnon, Noah Jupe

 

Carroll Shelby è il pilota che nel '59 ha vinto la 24 ore di Le Mans, la più ardua delle gare automobilistiche. Quando scopre di non poter più correre per una grave patologia cardiaca si dedica a progettare e vendere automobili. Con lui c'è il suo fedele amico e collaudatore Ken Miles, dotato di uno spiccato talento per la guida, ma anche di un carattere complicato. Insieme accetteranno la sfida targata Ford di sconfiggere la Ferrari e si batteranno per vincere una nuova 24 ore di Le Mans, contro tutti, a bordo di un nuovo veicolo messo a punto da loro stessi.

Il coraggio uno non se lo può dare, insegnava Manzoni. Lo stesso accade per il talento: o c'è, o non c'è. La tecnica si può affinare, ma la straordinarietà di saper eccellere in qualcosa è una peculiarità che appartiene solo alle viscere di una persona e nulla può scalfirla.

È il caso di Ken Miles, pilota nell'anima prima che sulla pista, capace di battere puntualmente i suoi stessi record. Irascibile, testardo, per nulla diplomatico, vanta volto scavato e carisma di Christian Bale, alla sua ennesima interpretazione magistrale. Pochi come lui, vale la pena ribadirlo, riescono a dar vita a personaggi incredibilmente distanti tra loro e renderli puntualmente credibili e memorabili, che siano di fantasia come Batman o tratti dalla storia come Dick Cheney in Vice e questo stesso pilota di cui restituisce tutta la ruvidità del carattere e l'umanità, cimentandosi per altro in un delizioso accento inglese (un peccato si perda nella versione doppiata).
Miles è l'emblema del campione, colui che a testa bassa, con umiltà, porta avanti la sua vita - una moglie, un figlio, un'officina da seguire - ma non rinuncia alla passione e, appena gli viene data la possibilità, dietro a un volante sa correre per trovare la sua rivincita.
Tratto da storie vere, il film si rivela una metafora interessante della lotta, molto attuale, tra talento e marketing: vale di più un cavallo di razza o il più addomesticabile e fotografabile di tutti? Miles/Bale risponde in pieno al primo profilo e per nulla al secondo, per questo la grande industria non lo ritiene all'altezza, "non è un uomo Ford", dicono al suo amico e sponsor Carroll Shelby.

Ad interpretare quest'ultimo, un Matt Damon perfetto nei panni di chi sa riconoscere il talento altrui e si spende, anima e corpo, per mostrarlo e difenderlo. Perché è maledettamente difficile riconoscere un talento, altrettanto difficile ammetterlo, ancora di più accettarlo, soprattutto se chi ha talento non appartiene a nessuna lobby e nessuna élite, e non si lascia corrompere né compiacere. 
Colpisce, funziona, emoziona l'alchimia tra i due protagonisti che porta il pubblico a parteggiare per loro, prima ancora che sulle piste, di fronte alla mentalità delle grandi industrie che frustrano il merito e barattano la bravura con la vendibilità, ieri come oggi. Ottimi anche gli attori nei ruoli minori, dal titanico Tracy Letts che fa arrabbiare e divertire nei panni di Henry Ford 2 a Remo Girone in quelli di Enzo Ferrari, dalla magnetica moglie di Miles Caitriona Balfe al bambino Noah Jupe, già visto in A quiet place. Dietro la macchina da presa c'è James Mangold, bravo a firmare un'opera al contempo adrenalinica, ironica, graffiante e commovente. 
Travolgente, profondo, il film di Mangold si allinea alla grande tradizione americana dei film basati sugli scontri/incontri tra titani, come Rush di Ron Howard oppure, cambiando settore, Frost/Nixon. Due ore e mezza di puro spettacolo, in cui è impossibile staccare gli occhi dallo schermo. Anche perché a settemila giri al minuto, insegna Mangold, possono succedere tante cose. La più sorprendente, dice Shelby/Damon, è che la macchina con cui corri svanisce. Resta un corpo che attraversa lo spazio e il tempo. È il punto in cui ti chiedi chi sei veramente, e per darti una risposta, a quella velocità, non c'è tempo per mentire.

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Pinocchio

Regia: Matteo Garrone

Durata: 125'

Genere: Fantastico

Luogo e anno: Italia | 2019

Cast: Roberto Benigni, Marine Vacth, Marcello Fonte, Davide Marotta, Rocco Papaleo, Federico Ielapi

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Ci sono tutti, i personaggi principali del romanzo di Collodi, nel Pinocchio di Matteo Garrone: Geppetto e il suo burattino di legno, Lucignolo, Mangiafuoco, la Fata Turchina, il Grillo Parlante, il Gatto e la Volpe, fino all'Omino di burro, il Tonno e la Balena. Perché questo ennesimo adattamento cinematografico di una delle favole italiane più note nel mondo è enormemente rispettoso dell'originale, come già era stato Il racconto dei racconti al testo di Gianbattista Basile.

C'è una cura devota nella ricerca delle facce giuste, negli scenari che chiunque abbia letto Pinocchio ha immaginato, nei dettagli dei costumi, del trucco (impressionante il legno con cui è costruito il bambino), degli effetti speciali artigianali, come lo erano stati ne Il racconto dei racconti, e utilizzati con grande parsimonia, ovvero solo quando narrativamente necessari.

In questa cura c'è tutto l'amore e la reverenza che Garrone ha verso il testo di Collodi, il suo perfetto equilibrio nel dosaggio degli elementi narrativi e nella caratterizzazione di personaggi che sono diventati archetipi, verso quell'ingranaggio drammaturgico che vede il percorso di iniziazione alla vita di un burattino che sogna di diventare un bambino (e dunque un uomo) vero dipanarsi per corsi, ricorsi e inciampi, sempre due passi avanti e uno indietro, con un andamento ad elastico sempre pronto a ritornare bruscamente al punto di partenza, proprio quando sembrava così vicino al salto evolutivo.
Gli interpreti son perfetti: Benigni trattenuto e straziante (come già il Nino Manfredi del Pinocchio televisivo di Luigi Comencini), il piccolo Federico Ielapi minuto ma tosto, sempre in equilibrio fra intraprendenza e desiderio di appartenere, disobbedienza e lealtà.
E poi Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, nati per diventare la Volpe e il Gatto, Gigi Proietti credibilissimo come il burbero Mangiafuoco dallo starnuto facile, le due fatine (bambina e adulta) Alida Baldari Calabria e Marine Vacht, la prima compagna di giochi (e marachelle), la seconda mamma e Madonna; il grillo parlante Davide Marotta. Standing ovation per Maria Pia Timo (la Lumaca), Enzo Vetrano (il Maestro) e Nino Scardina (L'Omino di burro).

Il personaggio meno sviluppato è Lucignolo, che ha la bella faccia da scugnizzo del piccolo Alessio Di Domenicantonio, e forse è qui il motivo per cui questo Pinocchio è visivamente bellissimo e filologicamente impeccabile, ma manca di quel guizzo anarchico che ci aspettavamo da Pinocchio e da Matteo Garrone. In questo senso anche l'assenza di Melampo apre la porta a un dubbio: che lo spirito trasgressivo di Collodi, che fra le righe fa il tifo per Lucignolo e disprezza Melampo, sia stato edulcorato dalla necessità di costruire una favola più addomesticata, meno apertamente provocatoria.
E se il ritratto feroce del Maestro fatto da Garrone lascia pensare che Pinocchio non avesse poi sbagliato a marinare la scuola, il tono pacificato, da abbecedario, di questa trasposizione cinematografica toglie un po' di quella forza sovversiva che ha reso Pinocchio immortale, e la sua curiosità un vettore narrativo pari alla curiositas di Ulisse.
Resta comunque negli occhi l'incanto di questa favola in cui si sentono gli scricchiolii del legno e si pattina sulla bava della Lumaca, dove gli scivoli del Paese dei Balocchi sono ricavati dalle macchine agricole e Pinocchio smaschera i cattivi salutandoli con un gesto della mano e un tenero (ma risolutivo): "Addio, mascherine!".

Ancora 3
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Il mistero Henri Pick

Regia: Rémi Bezançon

Durata: 100'

Genere: Commedia, Drammatico

Luogo e annoFrancia, Belgio | 2019

CastFabrice Luchini, Camille Cottin, Alice Isaaz, Bastien Bouillon, Josiane Stoléru, Astrid Whettnall, Marc Fraize, Marie-Christine Orry, Vincent Winterhalter

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Jean-Michel Rouche è un critico letterario e presentatore di un seguitissimo talk show sui libri in uscita. Un giorno in trasmissione si presenta la vedova di un pizzaiolo di cui, dopo la morte, è stato scoperto un romanzo inedito che, a pubblicazione avvenuta, è diventato un best seller. In trasmissione c'è anche la giovane editor che ha scoperto il manoscritto presso un'insolita libreria bretone, dentro la quale c'è una stanza dedicata interamente ai parti letterari di chi non è mai riuscito a farsi pubblicare. Ma Jean-Michel sente odore di imbroglio, e diventa ossessionato dall'idea di smascherare l'autore di quello che lui (e solo lui) ritiene essere un falso letterario. Dunque si reca personalmente in Bretagna per risalire alle origini della frode, e si mette in contatto con la famiglia del pizzaiolo, cercando di scoprirne i segreti.

Il mistero Henri Pick appartiene ad un sottogenere curioso, ovvero l'indagine letteraria, che comprende molti titoli, alcuni eccellenti come L'uomo nell'ombra di Polanski.

Qui però l'attenzione è meno focalizzata sull'aspetto thriller e più sulla commedia umana, e sulla premessa che "i bei libri sembrano scritti per noi", dunque appartengono a tutti, quale ne sia l'autore vero e proprio. La riflessione è anche sul mondo dell'editoria e su quanto sia difficile, per un autore sconosciuto, ottenere l'attenzione tanto degli editori quanto dei critici.
La sceneggiatura, scritta a quattro mani dal regista Rémi Bezancon e da Vanessa Portal, che adattano per il grande schermo il romanzo "Il mistero Henri Pick" di David Foenkinos, è un po' troppo intenta a far quadrare ogni dettaglio, ma la mano registica di Bezancon, autore di molte commedie lievi del cinema francese più recente, si mantiene coerentemente leggera, e lascia che siano le caratterizzazioni dei protagonisti e i panorami pittoreschi della Bretagna a farla da padroni.
Fabrice Luchini è perfetto nel ruolo del critico letterario disincantato ma non rassegnato al cinismo, e in fondo desideroso di ritrovare quel contatto umano e quella dimensione rurale che la Bretagna offre a piene mani, e Camille Cottin, volto nuovo della commedia francese, è azzeccata nella parte della figlia del piazzaiolo diventato una celebrità locale: del resto la coppia Luchini-Cottin aveva già mostrato una chimica tutta particolare nella serie Netflix Chiama il tuo agente.

Anche i personaggi minori sono tratteggiati con delicatezza e precisione creando un insieme corale piacevole, anche se un po' forzato negli incastri della trama.
Il mistero Henri Pick è il corrispettivo di una tazza di cioccolata calda da bere davanti al caminetto, immaginando fuori dalla finestra la costa bretone e intorno a sé un villaggio in cui tutti si conoscono e i vicini si aggirano in bicicletta. Se l'elemento thriller fosse più accentuato (e si vedessero le componenti più dark della natura umana) si entrerebbe nell'universo cinematografico di Chabrol: invece Bezancon resta sulla soglia del giallo vero e proprio per concentrarsi sull'amabilità dei suoi personaggi, sulla fragilità dell'ego e la superficialità di una produzione letteraria che privilegia la notorietà al talento, lo scoop alla sostanza

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Spie sotto copertura

Regia: Nick Bruno, Troy Quane

Durata: 102'

Genere: Animazione, Avventura, Azione

Luogo e annoUSA | 2019

Cast-

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Lance Sterling è il migliore agente segreto del mondo. Ma il capo dell'Intelligence, scottata di recente da una missione disastrosa, vuole affiancargli una squadra di supporto. Lance invece ama giocare da solo e ritiene di non aver bisogno dell'aiuto di nessuno. Walter Beckett è un inventore che progetta congegni per agenti segreti e tutti pensano che sia un tipo strano, perché ha ideato come armi speciali bombe glitter, abbracci gonfiabili e gattini dallo sguardo irresistibile, convinto che sia meglio unire le persone che farle esplodere. Quando Walter incontra Lance pensa che insieme possano fare la differenza, ma il miglior agente segreto del mondo non ha nessun intenzione di ascoltare le sue idee rivoluzionarie. Peccato che, per errore, Walter trasformi Lance in un...piccione, e da quel momento l'agente segreto dovrà affrontare il rischio in veste di pennuto, senza essere nemmeno capace di volare. E Walter sarà l'unico a potergli dare una...zampa.

Spie sotto copertura è chiaramente ispirato alla saga di 007: oltre a Lance, che ha le fattezze (e nella versione originale anche la voce) di Will Smith, c'è un capo che sembra M e un inventore, Walter, nel ruolo di Q, doppiato in inglese da quel Tom Holland che interpreta il più recente Spiderman.

Persino la sigla di apertura è una (bellissima) copia di quelle mitiche dedicate a James Bond. Ma qui l'agente segreto protagonista dovrà agire in coppia con il giovane nerd convinto che "la scienza spacca" e che il mondo abbia più bisogno di abbracci che di duelli: e dovrà abituarsi a fare di necessità virtù e "usare ciò che ha" invece che aspettare l'arma perfetta. Lance arriverà a capire che anche una squadra di malcapitati, come quella che gli si raccoglie intorno mentre lui ha l'aspetto di un piccione (parlante), può essere salvifica, persino della propria anima.
Spie sotto copertura è la versione lungometraggio di un corto di animazione, Pigeon: Impossible, firmato da Lucas Martell e diventato un piccolo cult dieci anni prima.
Nick Bruno, che ha alle spalle il lavoro di animazione per L'era glacialeRio e il film dei Peanuts, e Troy Quane, anche lui veterano de L'era glaciale, debuttano alla regia aggiungendo azione mozzafiato, effetti speciali e le caratterizzazioni della "strana coppia" Smith e Holland, inclusi molti siparietti comici fra i due.
Il film è una delle prime uscite Fox dopo l'acquisizione da parte di Disney e mostra il meglio che la major sa offrire in termini di cinema di animazione: un'avventura a rotta di collo che fa leva sull'archetipo cinematografico di 007 ma riesce a smarcarsi dalla mera imitazione.

Zog e il Topo Brigante

Regia: Max Lang, Daniel Snaddon

Durata: 52'

Genere: Animazione

Luogo e anno Regno Unito | 2018

Cast-

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ZOG
di Max Lang e Daniel Snaddon (27')
Zog è il drago più perspicace della Dragon School, ma anche il più incline a cacciarsi nei guai. Fortunatamente, una fanciulla misteriosa è sempre pronta a medicare i suoi lividi. La giovane ragazza dovrà aiutare Zog a superare la dura prova che lo attende: catturare una principessa e vincere l'agognata stella d'oro.

IL TOPO BRIGANTE
di Jeroen Jaspaert (25')
La vita non è semplice per gli altri animali a causa di un avido topo che attraversa in lungo e in largo l'autostrada rubando tutto il loro cibo. Ghiotto di panini, biscotti e ogni cosa dolce, il roditore non si ferma davanti a nulla pur di saziare la sua fame. Il brigante avrà finalmente la sua meritata punizione, grazie all'intervento di un'anatra molto furba.

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Ancora 6
The Milky Way - Nessuno si salva da solo

Regia: Luigi D'Alife

Durata: 84'

Genere: Documentario

Luogo e annoItalia | 2020

Cast-

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Tra Val di Susa e Valle della Clarée, tra piste da sci e turismo, i migranti percorrono il loro viaggio dall'Africa al cuore dell'Europa, attraverso le strade di un paese che sembra aver perso la sua memoria. The Milky Way è il racconto di un territorio attraversato, da millenni, da rotte di emigrazione ed immigrazione. Luogo di osmosi, una frontiera naturale ingannatrice che divide un'unica popolazione montanara.

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Hare Krishna!

Regia: John Griesser, Jean Griesser, Lauren Ross

Durata: 90'

Genere: Documentario

Luogo e anno USA | 2019

CastA.C. Bhaktivedanta Swami, George Harrison, Boy George, Janis Joplin, Mohandas K. Gandhi, Woody Allen, Bob Dylan

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Hare Krishna! racconta l’incredibile vita di Srila Prabhupada, un anziano Swami indiano che nel 1965, all’età di 70 anni, senza alcuna risorsa economica, ha lasciato Calcutta e la sua amata India per arrivare a New York e iniziare la sua missione di creare un movimento spirituale di portata mondiale.

Il film svela i retroscena di un movimento culturale nato nella scena artistica e intellettuale della Bowery di New York, della mecca hippie di Haight Ashbury e della Beatles mania di Londra, per raccontare come lo Swami indiano sia diventato il fondatore dell’Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna. Attraverso musiche, mantra, episodi dal forte impatto emotivo e interviste inedite di Prabhupada e dei suoi più intimi seguaci e studiosi, il film offre un resoconto della sua straordinaria vita non solo descrivendola ma anche esaminando in modo profondo l’America e il mondo durante quei turbolenti anni 60 e 70, con il Vietnam, le ingiustizie razziali e la Guerra fredda.Sia che voi siate credenti, devoti, scettici, atei, agnostici o studiosi, il film Hare Krishna! Il Mantra, il Movimento e lo Swami che ha dato inizio a tutto vi affascinerà. È un ritratto profondo e intramontabile di una delle figure più importanti del ventesimo secolo, il cui messaggio della coscienza di Krishna continua ancora oggi a riverberare in questo fragile mondo. Il suo carattere esemplare, arricchito da preziose qualità come la tolleranza, la compassione, oltre alla sua grande devozione spirituale, hanno fatto della sua vita un esempio ideale che ha ispirato e continua ad ispirare innumerevoli persone in ogni parte del mondo.

Ancora 9
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Alla mia piccola Sama

Regia:  Waad Al-Khateab, Edward Watts

Durata: 100'

Genere: Documentario

Luogo e anno Gran Bretagna | 2019

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Waad è una studentessa universitaria quando, nel 2011, sull'onda delle primavere arabe, la gioventù di Aleppo insorge contro la dittatura di Bashar al-Assas e ne domanda a gran voce la fine. La repressione del regime però è spietata e dà luogo alla più sanguinosa guerra civile del nostro presente. Molti fuggono, ma Waad resta, a fianco dell'amico Hamza, che diventa in quegli anni suo marito e anche l'ultimo medico rimasto, nella zona ribelle, per curare centinaia di feriti al giorno, nei mesi atroci dell'assedio della città, nel 2016.

Alla mia piccola Sama è la videolettera che Waad al Kateab scrive alla loro bambina, nata sotto i missili russi e i barili bomba, per spiegarle perché i suoi genitori sono rimasti ad Aleppo e perché l'hanno tenuta con loro, a rischio della loro vita e della sua.

La guerra in Siria è stata copiosamente raccontata e documentata con ogni mezzo audiovisivo, cosa che rende ancora più terribile l'astensionismo del mondo occidentale dall'intervento in soccorso della popolazione, perché le immagini non hanno mai lasciato adito a dubbi e la tragedia si è consumata giornalmente sotto i nostri occhi, fino all'anestesia dell'assuefazione.
Eppure, in questo panorama, Alla mia piccola Sama è a suo modo un caso unico, probabilmente il film più potente che ci sia arrivato, sicuramente il più emblematico, per una pluralità di ragioni, sulle quali primeggia la posizione della videocamera di Waad al Kateab: al centro di un bersaglio annunciato.
Ma c'è di più, perché il film non si configura solo come un potenziale testamento privato e collettivo in fieri, ma anche come il racconto urgente e umanissimo di una crescita personale, accelerata dagli eventi, che trasforma una ragazza in una donna e madre, e una giovane filmaker in una giornalista coraggiosa e rispettata, una voce dalla primissima linea, tutto senza pregiudicare l'intimità del suo obiettivo, inteso nel duplice significato di mezzo e fine.
Al centro di ciò, e dell'immagine e del sentire dello spettatore, c'è la piccolissima Sama, cuore pulsante della rivoluzione, termometro di sopravvivenza, miracolo incastonato nell'orrore della tragedia nella tragedia: il genocidio dei bambini siriani. Della loro sofferenza, ma anche della loro resistenza, Sama è il simbolo toccante e universale.

La camera di Waad inquadra i morti, lo strazio, il lutto, il terrore, senza censurarsi ma senza indugiare: c'è una bontà dello sguardo, che il lavoro di editing pensato con Edward Watts incornicia ed illumina, che fa sì che, laddove la denuncia è necessaria ma la visione intollerabile, sia la commozione a prevalere infine sull'orrore, il desiderio di vita su quello di morte, il sogno del futuro sul rimpianto del passato e sull'oscurità del presente.
Un film destinato a entrare nella storia del documentario e delle colpe collettive di un secolo.

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Botero - Una ricerca senza fine

Regia: Don Millar

Durata: 82'

Genere: Documentario, Biografico

Luogo e anno Canada | 2019

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“Let yourself be” è il motto di Fernando Botero (Médellin, 1932), il pittore e scultore noto in tutto il mondo per le sue figure enormi e massicce, prettamente ritratti umani. “Lasciati essere te stesso”. Botero è riuscito a realizzare questo concetto, mantenendo la sua personale identità di pittore fuori dagli schemi di un’estetica condivisa sin dall’inizio, dall’ardua partenza del suo percorso artistico nella città natale, la tragica e violenta Médellin in Colombia, fino a giungere nelle capitali dell’arte, quelle città dove un artista, dopo aver letteralmente sofferto la povertà, può riuscire, con tenacia, determinazione e lavoro, a diventare qualcuno.

Questa è la storia di Botero, il film di Don Millar sul pittore colombiano che, tra Parigi, New York, Milano, la Cina, la Colombia, Montecarlo e Pietrasanta dove ha lo studio dal 1983, è riuscito a farsi conoscere e apprezzare con le sue figure contro avanguardia.

Grosse donne e uomini, cavalli dalle sembianze grassocce, di matrice classica ripresa da Paolo Uccello, ritratti e proporzioni esagerate, seppure riprese dai grandi classici che Botero ha sempre studiato e ammirato, da Piero della Francesca a Leonardo, da Dürer a Manet. Grazie a questi modelli e all’esercizio del disegno Botero crea una palette di colori personale e una plasticità nelle figure riconoscibile.
Il film racconta il percorso dell’artista dalle sue radici, al trasferimento a New York con soli venti dollari, fino alle prime commissioni private e poi a quelle pubbliche che lo hanno spinto verso una fama internazionale e particolare. Il regista ha scelto Botero come soggetto proprio per la fascinazione della sua figura di “star” nell’arte, pur non essendo, da molti, considerato un artista puro. La narrazione è scorrevole e completa e procede parallelamente tra passato e presente grazie alla affettuosa conversazione tra Botero e i suoi figli, seduti a un tavolo di un ristorante a New York.
È nella città americana infatti che due figli di Botero vivono, grazie alle peripezie e al grande lavoro del padre che si è reso solido sul mercato sin dagli anni ’90, dopo aver disseminato piazze e luoghi importanti – è il primo artista ad esporre delle sculture sugli Champs-Élysées (1992) – di tutto il mondo. La figlia Lina lavora per lui: è infatti in un vecchio magazzino non aperto per anni che mostra al regista delle tele con dipinti e disegni del padre appartenenti agli esordi pittorici.

Chissà quanto varranno adesso? Ed è con passione e amore che i figli raccontano della caparbietà del padre, dell’affetto nei confronti della sua famiglia, della dolorosa perdita del piccolo figlio Pedro nel 1974 in un incidente stradale, che ha fortemente influito sulla pittura di Botero. Una famiglia espansa e talmente amata che, una volta all’anno, viene richiamata per una grande riunione con figli e nipoti nella bella dimora di Pietrasanta, in Toscana.
La “Mona Lisa”, la “Cabeza”, il “Gatto” a Barcellona, gli autoritratti, le sculture delle colombe – tra cui la simbolica in piazza San Antonio a Medellin, lasciata distrutta dopo una rivolta politica nel 1995, come segnale di un dramma da non nascondere -, sono ormai dei simboli che piacciono alla gente, per questo Botero è riuscito a farsi spazio nel mondo. 

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